giovedì 31 ottobre 2013

Piazza Santa Croce (come Piazza della Repubblica)

Nel 1967, a pochi mesi dall'alluvione del novembre 1966, Piero Bargellini Sindaco di Firenze pretese che la statua di Dante Alighieri, opera dello scultore Enrico Pazzi, che si trovava al centro della Piazza Santa Croce fino dal 1865, fosse spostata in modo da consentire in quella piazza il ripristino del gioco del calcio in costume, come ai tempi dell’assedio del 1530, liberando la Piazza della Signoria dal periodico svolgimento di tale gioco. Ciò costituì un’antistorica doppia forzatura: il calcio in costume era stato reinventato nei primi decenni del secolo XX proprio in funzione della scenografia costituita dal Palazzo Vecchio e dalla Loggia dei Lanzi, mentre il monumento di Dante, secondo le consuetudini del XIX secolo, era concepito proprio per stare al centro di una piazza. Inoltre non aveva alcun senso la presunta analogia, portata come pretestuosa giustificazione, fra la sistemazione di Dante sulla scalinata della Basilica e quella di David sull’arengario di Palazzo Vecchio, perché se la postazione di David poteva corrispondere ad un simbolismo di carattere politico, nessun simbolismo si poteva riferire a un Dante che volta le spalle alla facciata della chiesa. Inutilmente tentai di far valere tali ragioni al Sindaco, affermando che piuttosto di collocare il monumento a ridosso della facciata sarebbe stato preferibile eliminarlo del tutto dalla piazza. Bargellini non accettò obiezioni di sorta. Come funzionario dell'Amministrazione Comunale non potevo rifiutare l’opera del mio ufficio allo svolgimento di tale operazione, che era fermamente voluta dal Sindaco con il tacito consenso delle complici Soprintendenze, ma feci di tutto per non dovermene occupare direttamente, delegando ad altro architetto dell’ufficio la direzione dei lavori, che peraltro furono svolti con grande perizia. E’ evidente che il mio parere, oggi come allora, consiste nel preferire la sistemazione della statua al centro della piazza, il che impedirebbe l'uso improprio e lo scempio costante di quel luogo, così come ritengo che si debba riportare al centro di Piazza "Vittorio" il monumento a Vittorio Emanuele II, restituendo alla piazza il senso che aveva quando fu costruita al posto del vecchio mercato e del ghetto (a meno, per assurdo, di non voler ricostruire mercato e ghetto).



mercoledì 23 ottobre 2013

NOVECENTO

NOVECENTO

Dopo le ubriacature sull'arte del Novecento che si sono svolte nel corso di questo 2013 (vedi la mostra"Anni Trenta" di Palazzo Strozzi e a maggior ragione "Novecento" di Forlì, può essere utile rileggere la pagina che Vasco Pratolini scrisse nel 1966 sul suo romanzo "Allegoria e Derisione", dove parla di una mostra che si tenne nel 1936 al Parterre di San Gallo, riferendosi quindi ad un evento connotato esplicitamente come "di regime". Così cambiano i giudizi critici. Leggere per credere.



lunedì 21 ottobre 2013


Piazza della Repubblica

Perché non tornare a chiamarla Piazza Vittorio? Del resto se c'è una Via Vittorio Emanuele, perché non ci può essere una Piazza Vittorio? Questo è il nome che fu dato alla Piazza del centro di Firenze, quando fra il 1885 e il 1895 fu realizzata non solo per restituire il centro "da secolare squallore a vita nuova", ma altresì per ospitarvi il monumento equestre del primo Re d'Italia, la cui sagoma era centrata dall'arcone che le faceva da cornice. La statua equestre fu posizionata nel 1890, quando la piazza non era ancora stata completata. Si può pertanto affermare che statua e piazza furono concepite, contestualmente, l'una in funzione dell'altra. Fu solo nel 1932 che la statua del Re fu spostata alle Cascine, dove tuttora si trova al centro del piazzale di accesso al parco (ora deturpato da sottopasso e linea tranviaria). Al posto di Sua Maestà, nella piazza che ebbe il suo nome si trova adesso una Colonna dell'Abbondanza, ricollocata nel 1956 nella posizione che aveva quando al posto di Piazza Vittorio c'era il Mercato Vecchio, ma che è del tutto fuori contesto non avendo alcun riferimento con l'attuale assetto ottocentesco. Ma oltre all'incongrua colonna abbiamo un'eccentrica giostra e, quel che è peggio, si sfrutta il luogo del centro cittadino per qualunque cosa venga in mente, palchi di musica rock per serate più o meno bianche, mercatini settimanali di formaggio, vino, olio, miele, prosciutti, esposizioni di novità automobilistiche (quando i pochi cittadini abitanti il centro devono tenerne ben lontane le proprie) baracconi per la vendita di libri (non è un paradosso che un'amministrazione cittadina che non sa evitare la chiusura delle proprie prestigiose librerie sia costretta a permettere la vendita di libri al centro della piazza del centro?). Sembrerebbe giunto il momento di modificare la scritta al sommo dell'arcone, che può più coerentemente suonare così: "L'antico centro della città, da vita nuova a secolare squallore restituito". Si sono lasciati fuori discussione, perché parlano da soli, i quattro "dehors" sorti dove un tempo c'erano i tavolini all'aperto. Questi "dehors", autorizzati dalle Soprintendenze, sono veri e propri edifici, chiusi da pareti a vetri, riscaldati o raffrescati a seconda delle stagioni, soprelevati dal suolo pubblico e quindi muniti di gradinate di accesso, uniformati e armonizzati da un comune stile architettonico che ha avuto il completo gradimento delle "autorità (in)competenti".

venerdì 18 ottobre 2013


Die tote Stadt

A costo di una faticosa ascensione, al piano alto di Orsanmichele si può visitare una bella mostra dedicata all'Architetto Edoardo Detti (l'ascensore potrebbe portare fino al primo piano, ma se ne deve chiedere l'uso, non si sa bene con quale risultato, alla Società Dantesca). Detti è stato un bel protagonista del secondo novecento fiorentino. Anche per lui ricorre il centenario dalla nascita, come per Vasco Pratolini. Del resto quest'anno le ricorrenze non mancano: Verdi, Wagner, D'Annunzio, Mascagni, oltre a Detti e Pratolini. Emoziona rivedere le foto delle macerie di Por Santa Maria distrutta dalle mine tedesche e gli appunti e i progetti di Detti per il concorso della ricostruzione, così come ritrovare i dimenticati volti dei componenti la giunta La Pira del triennio 1961-1964, nella quale Detti fu assessore all'urbanistica e varò il Piano Regolatore della città, e anche, perché no, la foto di Le Corbusier che firma sotto gli occhi di La Pira il libro degli ospiti, in occasione della sua mostra in Palazzo Strozzi del 1963, sorvegliato alle spalle da Carlo Ludovico Ragghianti. Rimpianti di un tempo  e di una città perduti.
Per salire al secondo piano si passa dalla grande sala del primo, dove si trova quello che si può definire il cimitero delle statue di Orsanmichele. Infatti a tutte le nicchie dell'eccezionale chiesa-granaio sono state tolte le statue di appartenenza, siano esse di bronzo o di marmo, per sostituirle con delle copie. Gli originali si trovano ora, assurdamente allineati, al piano superiore, privi delle nicchie che ne costituiscono l'indispensabile e naturale complemento, nicchie le cui dimensioni hanno determinato e condizionato la forma delle statue in esse contenute. Che senso hanno i Quattro Santi Coronati di Nanni di Banco estratti dal semicilindro che li contiene e privati della predella in cui sono rappresentate le loro attività di scultori e scalpellini? Del resto tutta la città può essere paragonata a un grande cimitero, i cui cittadini, già abitanti, sono stati espatriati, le cui case sono occupate da cuculi che hanno fatto il nido nei nidi altrui, le cui strade sono percorse da torme di turisti, generalmente guidati da un'accompagnatrice con un fiore di plastica in mano, che vanno a ritrarre le cose più disparate, dalla vetrina di Gucci a quella della Ferrari, dal Porcellino alla giostra di Piazza della Repubblica. Un grande cimitero monumentale, copia di una città nella quale è morta ogni attività di quelle che erano il suo peculiare complemento. Proprio la rilettura dei libri di Pratolini conferma questa sconfortante realtà.

mercoledì 16 ottobre 2013

MARCIAPIEDI E CARREGGIATE

La querelle sulla pavimentazione delle strade di Firenze (pietra, asfalto, sampietrini o altro) dovrebbe spostarsi sul più essenziale problema dei cosiddetti marciapiedi.
Il marciapiede nelle strade della città vecchia non è da intendersi come il luogo dove "marciano" i pedoni. Esso è in realtà il "piede" della casa, che corrisponde, alla base della facciata, alla gronda del tetto al vertice della medesima. Non si dovrebbe eliminare il piede della facciata, così come a nessuno viene in mente di sopprimere la sporgenza del tetto, a costo di amputare una delle parti essenziali che compongono la facciata medesima. Il cosiddetto marciapiede (che, come si è detto, marciapiede in senso letterale non è) segue l'andamento delle facciate, retto o curvilineo che esso sia. La sua funzione non è altro che quella di salvaguardare la facciata e distanziarla dalla carreggiata percorsa dai carriaggi. La carreggiata infatti anticamente non era lastricata, salvo che in rari casi, e il marciapiede evitava che la polvere e gli schizzi di fango potessero raggiungere facilmente le porte e le finestre dei piani terreni.
Il marciapiede tradizionale è largo normalmente poco più di un metro ed è costituito da lastre di pietra  perpendicolari alla facciata, senza che vi sia il bordo posto in senso longitudinale. Questa è la forma e il carattere del marciapiede della strada di Firenze, complemento essenziale alla facciata. Il problema di come realizzare la pavimentazione della carreggiata è assolutamente secondario: nei tempi essa ha conosciuto le più diverse tipologie. L'essenziale è il rispetto del marciapiede come complemento della facciata. Forse le Soprintendenze dovrebbero accorgersi di questa peculiarità che riguarda l'architettura della città, piuttosto che intestardirsi su astratte questioni di principio circa le carreggiate. Si vedono invece alterazioni inammissibili, come, per esempio, la "nuova" Via dei Tornabuoni, dove marciapiedi larghissimi cambiano di misura senza alcun rapporto con gli allineamenti degli edifici e sono costituiti di piccole lastre contenute da un inutile bordo, o come Via dei Martelli in cui i marciapiedi sono incomprensibilmente soppressi e la carreggiata è talmente innovativa che le lastre di pietra che la compongono sono disposte, chissà perché, non a lisca di pesce. A quanto pare le Soprintendenze stanno attente alla carreggiata di Via Micheli, magari lasciando al geometra del Comune la libertà di realizzare il marciapiede a suo piacimento, e non sono capaci di mettere a fuoco il problema della morfologia della strada in rapporto agli edifici che la fronteggiano.

mercoledì 9 ottobre 2013

Una prece (al Teatro Comunale)


Al Teatro Comunale hanno regalato a noi abbonati la rappresentazione del balletto "Giselle, ou les Willis", rielaborazione del coreografo Giorgio Mancini del balletto “Giselle” di Adolphe-Charles Adam. Una rielaborazione che prevede all’inizio una sala prova, dove avviene un casto incontro di tipo omosessuale fra due ballerini, e poi, via via che il balletto Giselle prende forma, Giselle impazzisce, e poi muore, perché un tizio le ha fatto vedere sull’iPad la foto dei due ballerini appassionatamente abbracciati, foto che appare in grande sul velario di boccascena, affinché anche noi spettatori possiamo goderne. Nel secondo atto le Willi sono indifferentemente uomini e donne avvolti in veli dalla testa ai piedi. Il principe danza con l’ombra di Giselle in modo svogliato e indifferente, forse perché non si sente gran che attratto dalla fanciulla. Questo è ciò che ho creduto di capire. Povero Teatro. Una prece (a parte il doveroso apprezzamento per Letizia Giuliani, Giselle, e la gradita sorpresa di un buon giovane direttore, Giuseppe La Malfa).